La questione italiana dei finanziamenti pubblici all’editoria – che ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico, e torna fuori ogni volta che si parla della crisi dei giornali – è piuttosto complicata: ci sono varie forme di contributi (diretti, indiretti o tutti e due insieme), qualcuno può riceverli, altri ne sono esclusi, ci sono numerose leggi di riferimento. E ci sono, infine, diverse posizioni sulla loro legittimità o meno: c’è chi vuole abolirli, chi ripensarli e chi lasciarli così come sono. Gli argomenti di chi li pensa necessari si possono, semplificando, riassumere nella difesa della pluralità delle informazioni e delle opinioni, nella conseguente tutela dei giornali più piccoli e nel riequilibrio di una disparità che deriva dagli investimenti pubblicitari. Chi invece vuole abolirli (e il Movimento 5 Stelle si è fatto portavoce di questa richiesta presentando un disegno di legge) sostiene che è un costo troppo oneroso per lo Stato e che il finanziamento non rende libera l’informazione ma al contrario la condiziona.
Esistono due tipi di finanziamento all’editoria. I contributi diretti, distribuiti in base a vari criteri (ci torneremo) e di cui possono usufruire solo alcuni, e i contributi indiretti a cui possono avere invece accesso tutte le testate, purché cartacee.
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